IN MEMORIA DI FRANCESCO ORLANDO
La prima formazione letteraria di Francesco Orlando è avvenuta sotto un segno decisamente non accademico, in una periferia geografica e culturale quale era la Sicilia degli anni Cinquanta, alla scuola di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Un ambiente, comunque, che poteva partorire nello stesso periodo personalità che si sarebbero rivelate preziose per la cultura italiana: come quelle di Antonio Pasqualino, di Francesco Agnello o di Gioacchino Lanza, oltre a quella di Francesco Orlando.
La vocazione letteraria, in seguito, lo ha condotto a Pisa dove, sotto la guida di Arnaldo Pizzorusso, ha cominciato la sua attività di francesista. Erano gli anni in cui Jean Rousset aveva aperto nuove frontiere agli studi sul Seicento francese definendo una nozione di Barocco fuori da una prospettiva idealistica e metastorica, bensì basata sull’analisi testuale e sulla ricorrenza di temi e figure. Su questa strada completamente nuova, sia rispetto alla cultura crociana declinante ma ancora viva, sia rispetto ai vari approcci di tipo sociologico, Francesco compie le sue prime ricerche che culminano nel volume su Rotrou, autore di cui questo studio ha segnato l’inizio della rivalutazione. Già in questo libro si riconoscono alcune di quelle che saranno le caratteristiche della sua metodologia: l’individuazione di costanti sia formali che tematiche; la loro sistematizzazione all’interno di un paradigma che consenta di dare ad esse un senso; l’apertura internazionale (in questo caso mediante confronti col teatro coevo spagnolo e italiano) che costituisce, in un’epoca in cui queste cose non andavano affatto di moda a causa del primato idealistico della lingua e di quello storicistico del contesto, la base della sua futura prospettiva comparatistica.
Ancora più decisiva fu la lezione che, sempre in quegli anni, Francesco riceve da quello che, fino all’ultimo, considererà il più grande dei suoi maestri: Erich Auerbach. Le tracce evidenti di questa lezione si ritrovano già nel volume Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai Romantici. Adottando il metodo dei campioni disposti in una sequenza cronologica, il saggio valorizza la novità storica costituita dalla scoperta rousseauiana dell’infanzia come primo esempio della trattazione seria di una materia fino ad allora ritenuta futile ed insignificante, e definisce l’influenza contraddittoria di tale scoperta su due generazioni di memorialisti.
Alla fine degli anni Sessanta, come è noto, anche in Italia si assiste a una rottura rispetto alla vecchia tradizione critica con l’affermarsi di una serie di metodologie, spesso di matrice linguistica, che si richiamavano allo strutturalismo. Francesco perviene a combinare questa serie di tendenze in una sintesi originale con l’apporto decisivo della psicanalisi. Prendendo le distanze sia dal contenutismo freudiano, che tendeva a ritrovare ovunque simboli per lo più sessuali, sia dal biografismo che riportava tutto all’inconscio dell’autore, egli propone una lettura dell’opera di Freud in chiave retorica e logica individuando nel libro sul motto di spirito il modello capitale per l’interpretazione dei testi letterari. È il periodo dei quattro grandi studi del ciclo cosiddetto freudiano - Lettura freudiana della «Phèdre», Per una teoria freudiana della letteratura, Lettura freudiana del «Misanthrope», Illuminismo e retorica freudiana - che costituiscono la più coerente e organica proposta di teorizzazione del fenomeno letterario anche al di là degli stessi confini delle applicazioni psicanalitiche in letteratura. Al centro di questa proposta teorica stanno le nozioni di repressione, di ritorno del represso e di formazione di compromesso. In esse si sentono gli echi inconfondibili di quella stagione innovativa e liberatoria che vedeva Francesco vicino alle posizioni del movimento studentesco, tanto da subirne personalmente gravi conseguenze come l’allontanamento dalla Scuola Normale di Pisa. Tuttavia la sua proposta teorica conserva una forza e un respiro che, a tutt’oggi, non hanno ancora trovato un equivalente negli studi italiani e non solo. Colpisce, nell’insieme di quest’opera, la capacità di coniugare istanze che altrove risultano inconciliabili o inconciliate, di superare la divaricazione - complementare - fra le posizioni che si richiamano al contesto storico e quelle che isolano e reificano il fenomeno letterario.
Negli anni Novanta Francesco risponde alla crisi degli studi letterari con una nuova ricerca di portata straordinaria in cui si combinano la problematizzazione teorica, il rinnovamento dell’approccio tematico, la sensibilità del grande lettore esercitata sui classici dell’intera tradizione occidentale. Mai come in questo testo - Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura - emergono le qualità combinate del grande specialista alieno da vacua erudizione e del grande dilettante che rifugge da semplificazioni e approssimazioni. L’intuizione centrale è quella di mostrare come, nell’epoca della modernità trionfante all’insegna della merce e dell’utile, la letteratura privilegi la rappresentazione di oggetti inutili, logori, scartati, e con ciò protesti contro l’ordine della funzionalità borghese e della sua efficienza evocando, per contrasto, altri modi possibili del rapporto fra gli uomini e le cose.
L’analisi rigorosamente testuale unita al finissimo senso storico si ritrova di nuovo nell’ultimo saggio pubblicato da Francesco, L’intimità e la storia, dedicato al Gattopardo. Quella che lui chiamava la “scomposizione paradigmatica”, vale a dire lo smontaggio e il rimontaggio del testo secondo una logica di affinità e opposizioni, trova in questo lavoro la sua applicazione forse più completa, restituendo l’opera di Lampedusa alla grande tradizione del romanzo europeo da cui era stata spesso esclusa con assurde motivazioni regionalistiche.
Il saggio sul capolavoro del maestro della giovinezza si accompagna alla ripubblicazione, aggiornata, di quel Ricordo di Lampedusa che Francesco aveva scritto all’indomani della morte del principe. In questo recupero del passato si inserisce, forse, la decisione di rimettere mano a un romanzo giovanile, La doppia seduzione, lodato dallo stesso Lampedusa nella sua prima versione e mai più ripreso. Francesco ci lavora per quasi dieci anni, a lungo pensa di pubblicarlo dopo la morte, e infine lo consegna alla stampa soltanto tre mesi fa. Si tratta di un romanzo che s’ispira all’adorata tradizione moralistica francese, quella di Stendhal e di Costant - scrittori “magri” secondo la definizione di Lampedusa. Vi si racconta l’educazione sentimentale dei due giovani protagonisti in una città meridionale degli anni ’50, provinciale e assolata. Attraverso una vicenda narrativa “trascinante, ironica e crudele” viene messa in scena la sostanziale ambivalenza della sessualità umana, così come Freud l’ha descritta. La prosa, nitida e ricercata, è animata dal pathos di una rivendicazione militante che può anche turbare il lettore ma che, inevitabilmente, lo tocca.
Chi ha conosciuto Francesco sa che l’amore per la letteratura non era che una parte delle sue passioni. Un posto non meno importante era occupato dalla musica e anzi, se si dovesse dire qual è la sua prima formazione, noi - che l’abbiamo conosciuto bene - diremmo che è quel melodramma che, invece, Lampedusa affettava di disprezzare. Sono qui presenti decine di persone che, con l’ausilio della sua straordinaria collezione di partiture, hanno ascoltato musica nel suo studio in serate indimenticabili che soltanto lui poteva organizzare. Ma è stato L’Anello del Nibelungo di Wagner, in particolare, la sua predilezione fin dall’adolescenza. Nel sistema wagneriano dei Leitmotive egli sosteneva di avere ritrovato il modello della scomposizione paradigmatica attraverso l’analisi dei temi musicali che ritornano incessantemente simili e diversi. E su Wagner, nella cui figura di grande innovatore e di grande costruttore s’identificava profondamente, Francesco ha scritto alcuni saggi sparsi che sarà nostra cura - vi promettiamo - riunire e pubblicare in volume. Così come contiamo di pubblicare le parti già stese di altre sue ricerche in corso, e in particolare dell’ultima, quella più avanzata, dal titolo provvisorio Uno scandalo cristiano. Il marito tradito. Si tratta di un lavoro nel quale, a partire dalla valorizzazione di alcune costanti testuali ritrovate in un corpus di testi estremamente ampio, vengono avanzate ipotesi inaudite di spessore antropologico oltre che letterario: la figura tradizionalmente ridicola del marito tradito viene messa in rapporto con l’avvento e l’affermazione del cristianesimo. Il marito deriso, l’oggetto inutile, il desiderio negato: non si può non notare come costante, nella ricerca peraltro così rigorosamente definita di Francesco, la compassione per la figura del perdente, dello sconfitto, dell’emarginato.
I posteri, che potranno valutare forse meglio di oggi l’importanza della sua opera di critico e di teorico, perderanno comunque molto perché non potranno ascoltare la sua voce. È stato detto in questi giorni che la parola di Francesco era seduttiva e incantatoria. Cosa anche vera, ma l’essenziale è altrove. Attraverso la parola, Francesco intendeva convincere razionalmente con un argomentare chiaro e distinto (e in ciò, forse, si manifestava il lascito più importante della cultura francese). L’interlocutore era chiamato a un giudizio liberato dalle due ipoteche maggiori che sempre ne minacciano l’autonomia: il principio d’autorità e la soggezione alla moda. Francesco, in particolare, disprezzava sovranamente le mode. Chiedeva a chi lo ascoltava un ruolo attivo e non passivo; a chiunque egli si rivolgesse - il collega, come lo studente di primo anno - tributava una fiducia, profondamente democratica, che aveva radici nell’idea che tutti possono comprendere e giudicare sulla base di una buona argomentazione razionale. Niente, per Francesco, era ineffabile; davanti a nulla l’interpretazione si doveva fermare. Ma un’interpretazione, per lui, non ne valeva un’altra. Ce n’era sempre una più vera e potente per cui battersi. Nel contesto attuale della volgarizzazione delle idee relativiste, per cui tutti i punti di vista sono intercambiabili, la sua rivendicazione d’un primato della razionalità era anche etica. Ciò migliorava l’interlocutore perché lo costringeva inesorabilmente a confrontarsi con le proprie contraddizioni. Momento privilegiato di questo esercizio della parola era la lezione universitaria: mai concepita come routine ma sempre come compito di massimo impegno, come una sorta di missione. E generazioni di studenti che l’hanno ascoltato, e ne sono stati colpiti, sanno di cosa stiamo parlando.
Non si creda, però, che l’ideale di razionalità propugnato da Francesco non riconosca le ragioni di ciò che razionale non è. Al contrario, la sua forza si misura proprio dalla capacità di capire, senza pretese esorcistiche, ciò che lo contraddice. Soltanto il ricorso alla razionalità permette di indagare l’antilogica dell’inconscio, così come la fenomenologia della perversione o anche l’oscurità delle figure letterarie. È sempre la stessa battaglia, diceva Francesco: quella di Voltaire, quella di Marx, quella di Freud.
Tutti noi, suoi allievi, abbiamo ricevuto questa fondamentale lezione e, con i nostri mezzi più modesti, cerchiamo di mantenerla viva, anche se la sua morte ci lascia tutti più soli.
Ma vorremmo terminare con i versi di una poesia di Eichendorff, Im Abendrot (Nel rosso della sera), nella bellissima traduzione che Francesco aveva approntato in occasione di una conferenza sulla produzione liederistica di Richard Strauss, tenuta a Perugia un mese esatto prima della sua morte. In queste parole, e nella sublime interpretazione musicale di Strauss, egli si compiaceva di vedere l’altissima espressione poetica di un sentimento - sono parole sue - di “rara serenità laica di fronte alla morte”: Noi siamo tra pena e gioia - andati mano nella mano, - ora ci riposiamo - sulla tacita terra. - Le valli intorno si curvano, - l’aria si fa già scura, - solo due allodole s’innalzano - nel profumo, sognando ancora. - Avvicinati, e lasciale trillare, - sarà tempo di dormire presto, - che noi non ci perdiamo - in questa solitudine. - O ampia, tacita pace, - così profonda nel rosso della sera. - Che stanchezza di camminare... - è questo forse la morte?